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Il primo accenno a Cerete bergamasco, secondo gli storici, risalirebbe al 941, anno in cui vi fu redatto un atto di permuta di terreno tra il vescovo Recone e il sacerdote Petrone.

Il suo territorio negli ultimi due milioni di anni è stato interessato più volte dalle glaciazioni provenienti dalla val Camonica e sul fondovalle esistono tracce dell’antica torbiera di Cerete Basso, messa in luce dall’erosione provocata dal torrente Borlezza. Il ghiacciaio camuno, infatti, deviava nella Val Borlezza e risaliva l'altopiano fino alle porte della piana di Clusone. A testimone di questa teoria sono le colline moreniche presenti tra Cerete, S. Lorenzo e Songavazzo Nel suo territorio scorre anche un altro torrente, sfruttato dai mulini della zona, il Cula, che sfocia nel Borlezza dopo aver attraversato Cerete Basso. Le testimonianze archeologiche testimoniano la presenza umana già in epoca preistorica: ceramiche dell’età del ferro (in località Gavazzo), graffiti di epoca ancora imprecisata e un blocco di ossidiana che permette di ipotizzare una frequentazione anche in epoca neolitica. Alcune rocce sulle quali sono stati rinvenuti singolari segni di incisioni, hanno destato interesse e fatto pensare alla possibilità che la civiltà camuna abbia lasciato i segni della sua influenza anche nell’alta Valle Seriana. Le tracce dei presunti graffiti sono state localizzate in località «Cedrini» della Val Borlezza, in territorio comunale di Cerete Basso.

Una necropoli altomedievale è stata inoltre rinvenuta all’ingresso del paese, accanto alla chiesetta di San Rocco.

La prima menzione della località risale all'883 e riguarda la donazione da parte dell'imperatore Carlo III il Grosso al vescovo di Bergamo del piccolo monastero di San Michele Arcangelo "in locum qui dicitur Cerretum. La donazione è confermata nell'895 da re Arnolfo di Carinzia e nel 901 dall'imperatore Ludovico IV il Fanciullo. Intorno al monastero dovette formarsi un centro abitato, tanto che la località viene menzionata come civitas in un atto di permuta dei terreni del 941 conservato nel "Codex diplomaticus Langobardiae".

Attorno all’anno Mille si hanno notizie dell'esistenza di un palazzo episcopale del vescovo di Bergamo, dotato di torre, sull’attuale piazza Giovanni XXIII. Il territorio doveva estendersi dal passo della Presolana fino ai confini fra Cerete e Sovere e comprendeva probabilmente i territori attuali di Cerete, San Lorenzo di Rovetta, Songavazzo, Onore, Fino del Monte e Castione della Presolana.

Cerete Basso fu quindi annesso al comune di Gavazzo, ma mantenne l'obbligo di corrispondere le decime alla Curia. Il comune di Gavazzo, secondo un documento del 1212, comprendeva la zona sud dell’attuale Rovetta, ovvero il territorio di San Lorenzo, con la parte orientale del monte Fogarolo fino alla "valle di Barcolo" (oggi valle Faccanoni) e l’attuale territorio di Cerete collocato fra i torrenti Borlezza, Cula e Glerola. Cessò di esistere verso la metà del XIV secolo e Cerete divenne comune autonomo.

Oggi Cerete Alto, Cerete Basso e Novezio sono i principali centri abitati, hanno strade più volte “ribaltate” negli ultimi anni per l’impianto di nuovi servizi e la revisione di quelli già esistenti, la nuova via di raccordo tra i due Cerete (Alto e Basso) come l’allargamento del tratto tra Novezio e Cerete Alto li ha resi più facilmente raggiungibili.

Il centro storico di Cerete Alto (Sede comunale) ha il suo fulcro nella piazza Martiri della Libertà, mentre quello di Cerete Basso nella piazza Giovanni XXIII.

Data la sparsa collocazione delle sue antiche contrade, dista da Clusone dai sei ai sette km e da Lovere dai nove ai dieci km.

La popolazione che attualmente conta di 1360 unità circa, nella stagione estiva viene moltiplicata dalle crescenti presenze di chi sceglie, per riposare, la tranquillità dei nostri monti, dall’aria tuttora balsamica: si tratta in genere di ospiti provenienti dall’area milanese, ma di anno in anno aumentano in percentuale anche quelli che si spostano da altre provincie …… di regioni diverse.

Attratti dal primo tempo dalla ricchezza del verde e dal senso di serenità quieta della zona, conquistati in seguito anche dalla cordialità della gente locale che ha loro facilitato l’inserimento e reso piacevole il soggiorno, da qui la decisione di trascorrere periodi più lunghi e lungo l’annata e per molti anni.

Molti gruppi familiari per le loro vacanze hanno messo radici e, familiarizzando con tutti , partecipano attivamente alle varie iniziative dell’Amministrazione Comunale ed altri Enti che vanno continuamente facendo per ovviare i disagi di carenze di alcuni servizi.

Il primo capitale e più prezioso di Cerete, al quale tutti possono gratuitamente attingere, è costituito da una natura viva, rigogliosa, sana e multiforme. Chi ama lo spazio, i colori, la luce, le voci delle cose, i contrasti, la vita all’aperto, le escursioni in montagna, qui ha trovato il suo posto ideale: ce n’è a sufficienza per tutti i gusti ed età.

Si possono godere i soliti quattro passi indisturbati, su viottoli di campagna, agevoli e solitari, magari in direzione di Cula o del Borlezza, camminare anche coi bambini su strade pianeggianti oppure affrontare percorsi un poco più impegnativi verso le montagne circostanti per esplorazioni più vaste attraversando selve di conifere e vasti superbi prati.

Al turista che lo viene a visitare, Cerete riserva però anche un’altra piacevole sorpresa: il suo volto segnato dal passaggio antico di gente industriosa, nobile, influente. Se ne scoprono le tracce nei tratti di acciottolate, ripide vie, ancora in parte limitate sa lastroni di pietra, accanto ai sopravvissuti mulini,tuttora ostinatamente in azione sotto il peso dei secoli, di fronte alle caratteristiche costruzioni d’altri tempi, impreziosite da archi, colonne, stemmi, soprattutto negli affreschi murali e nei dipinti su tela, scampati agli strappi delle vendite abusive.

Scriveva nel 1905 il Baradello: “Forse nessun paese del Bergamasco, conta tante pitture murali come Cerete Alto. Sulle facciate delle case, sui canti delle vie, e un vero sfoggio di antichi dipinti.”; ed era proprio cosi, fuori e dentro le abitazioni, fino a poche decine di anni fa. Purtroppo oggi il numero di quei dipinti, per cause molteplici, si e molto assottigliato. Tuttavia cio che è rimasto in ognuno dei centri abitati del nostro Comune riscuote ancora interesse e ammirazione. Nelle chiese in particolare (le due parrocchiali, il santuario della Nativita di Maria in Novezio e la cappella sepolcrale dei nobili Marinoni in Cerete Alto), l’arte, quella vera, rappresentata dai piu bei nomi d’ogni tempo, ha messo radici veramente copiose e profonde.

A Cerete nella vita contadina del 1930, prevaleva la produzione per l’autoconsumo, e la popolazione si nutriva soprattutto dei prodotti che ricavava dalla terra e dall’allevamento. L'alimentazione era costituita soprattutto dalla polenta gialla, consumata al mattino con il latte (fregaroi) e a mezzogiorno accompagnata da formaggio o, raramente da salumi. Alla sera si mangiava minestra di latte o di verdure. La carne era un alimento di lusso e piatto forte nelle feste grandi oppure veniva consumata quando moriva un capo di bestiame. Le patate erano un valido sostituto della polenta. C’era un largo consumo di prodotti delle piante: castagne, noci, nocciole, mele, fichi, uva, mele cotogne, susine, nespole e i frutti dei gelsi (i murù) presenti sul territorio per la coltivazione del baco da seta di cui Cerete ne era produttore.

L'abbigliamento era semplice ed essenziale, tramandato da fratellino a fratellino e da famiglia a famiglia. I tessuti erano filati di lana e canapa, iniziava l’uso di stoffe e tele, quindi i contadini vendevano la lana per comperarne presso le botteghe. Ai piedi portavano in genere calzature di legno, con le suole chiodate, semplici zoccoli, o pedule di stoffa.

Le case contadine addossate le une alle altre erano quasi esclusivamente in pietra a vista, con copertura in coppo di terracotta fatti a mano, ospitavano nello stesso edificio anche la stalla e le concimaie (utili per la concimazione dei campi) pochi erano i rifiuti, tutto veniva utilizzato e nulla lasciato al caso.

L'arredamento era spartano: una cassapanca con spesso qualche sgabello, una credenza per riporre le poche stoviglie, le scodelle di legno, i secchi di rame per conservare l'acqua, paioli di varie dimensioni. I mobili venivano spesso fabbricati in famiglia.

Mancavano quasi sempre i lavandini, normalmente in pietra e con lo scarico che dava direttamente sulla pubblica via o nel cortile e nelle latrine interne.

Le camere, di solito situate ai piani superiori e raggiungibili da scale esterne in legno, avevano il pavimento in legno oppure in cotto trattato con il “rossetto”, erano dotate di due o tre letti a una piazza e mezza, dove dormivano più persone. I materassi manufatti con cartocci di granoturco oppure la rete a molle con materasso in lana (ma questo era già un lusso), semplici lenzuola di canapa o lino e canapa e coperte tessute al telaio. Si usava scaldare il letto con uno scaldaletto in legno con un contenitore di ferro per le braci accese (“la monega”).

Gli ambienti non erano dotati di riscaldamento, gli unici ambienti caldi erano la cucina deve la stufa accesa serviva per cucinare e la stalla grazie agli animali, dove si andava dopo cena a passare la serata prima di andare a letto. Era abitudine raccontare ai ragazzi storie passate oppure recitare il rosario mentre le donne cucivano e filavano la lana.

L’elemento di carattere statico che teneva insieme la casa era la volta, costituita dalla cucina, la cantina (ol silter) e la stalla. Le cucine avevano pavimento in acciottolato, alcune erano lastricate con delle piastre di pietra (prede), le più belle con pavimento in cotto. I locali delle abitazioni erano bassi, a volte privi di finestre, o comunque con aperture di piccole dimensioni riparate da vetri.

Attorno alla casa doveva esserci lo spazio per l’aia (l’era) che doveva essere dotata di pozzo o fontana con acqua sorgiva, per l’orto ed il pollaio; all’interno della costruzione il portico, la loggia, il solaio, il granaio ed il fienile dovevano essere ampi e funzionali.

Alcune case, quelle più distaccate, avevano un piccolo terreno riparato dal freddo e dai venti da mura alte poco più di un metro e mezzo (brol) dove si coltivavano le piante da frutto e l’orto.

Particolare cura richiedeva la stalla, dal suo funzionamento dipendeva il benessere della famiglia. In quei tempi circolavano ben pochi soldi e la ricchezza erano il bestiame, i campi e i boschi. La legna serviva per la cottura dei cibi, per la lavorazione dei prodotti caseari e per alimentare le numerose calcare (calchere).

La contrada rurale era costituita da questi edifici poveri, separati da vicoli stretti ed acciottolati.

Non mancano però le belle case (quasi palagi) delle antiche e nobili famiglie nostre, con i simmetrici archi poggiati su più ordini di colonne, a sostegno dei portici e di loggiati serviti da ampi scaloni in pietra, stanze e sale spaziose e affrescate, soffitti a cassettoni, portoni dai robusti catenacci, architravi lavorati ed impreziositi da stemmi.

Nelle case nobiliari il focolare era enorme, con una cappa maestosa, realizzato con materiale scelto e ben attrezzato. Attorno a questi camini si ha testimonianza di stesure di importanti atti notarili e certamente di convegni tra i più bei nomi della zona.

L’illuminazione era affidata alle candele, riposte sotto i portici e nei loggiati, venivano conficcate su uncini di ferro battuto applicati alle colonne appena sotto i capitelli. A questo scopo potevano venire utilizzate anche le prime lanterne ad olio e i piccoli lumi ad olio nei quali navigavano gli stoppini. Le strade erano completamente al buio.

Lo spirito comunitario che contraddistingue tutt’oggi i ceretesi permise l’impulso di associazioni economiche e quindi la nascita di una cooperativa: la latteria, di cui esistono i libri contabili e le attrezzature.

Il dialetto bergamasco è stato il mezzo quotidiano ordinario di cui i nostri antenati si sono serviti per tramandarci le loro esperienze, posto dal bisogno di comunicare è sostanziato di cose nostre, forgiato su misura tenendo conto della natura dell’ambiente, delle abitudini locali, del genere di attività svolte, il dialetto dispone di una terminologia straordinariamente duttile ed incisiva, anche quando viene espressa in forma stringata.

Ancora oggi parlato dai ceretesi soprattutto adulti (di cui ne vanno fieri), le mutate condizioni sociali e l’avvio dei bambini all’uso della lingua italiana anche in famiglia hanno però modificato o fatto scomparire parecchi vocaboli dialettali.

Ai ceretesi piace pensare che nel complesso questa nostra “lingua madre” ha difeso con onore il suo ricco, originario patrimonio, conservando vivo l’impegnativo ruolo di mediatrice, nell’avvicendarsi delle generazioni

Visitando il passato ci si trova, come per incanto, circondati da immagini fantastiche, la vita passata vissuta e rivissuta dai nostri bisnonni e nonni si apre su ricordi o emozioni della nostra infanzia. Esistono immagini che possono raccontare una vita, oppure, la vita di un intero paese che non esiste più. L'immagine è il mezzo attraverso il quale maggiormente percepiamo la realtà che ci circonda. Tuffarsi in una dimensione passata è un'esperienza bellissima che può arricchire enormemente.

L’unione Sportiva Turistica Culturale Cerete vuole, attraverso questa umile manifestazione, regalare alle persone che ne faranno visita queste emozioni.

Vuole suscitare nei visitatori la malinconia dei tempi passati e una riflessione sui tempi presenti e futuri, mostrando l’allegria e la semplicità nel vivere tutti insieme, la libertà dei cortili, la povertà e l’ orgoglio della vita contadina che rappresenta le origini di Cerete.

Vuole rendere omaggio al mondo dei nostri contadini, semplici nei gusti, ma ricchi di buon senso, tenaci all’attaccamento della nostra terra e fedeli alle tradizioni.

Vuole promuovere la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali di Cerete con particolare riferimento alla popolazione, alla sua caratteristica, al suo stile di vita, alla sua civiltà, alle sue tradizioni, alle arti e alle tradizioni orali, negli usi e costumi.

La manifestazione è giunta ormai alla quarta edizione, iniziata nell’agosto 2005.

Questa iniziativa ha potuto concretizzarsi sia per l’utilizzo di alcuni edifici privati di antica costruzione (veri e propri musei) sia per l’impegno e la fattiva collaborazione di tutto il paese, lavori e concessioni che tutti hanno prestato gratuitamente.

In un mondo dove le costruzioni moderne, il cemento armato, l’asfalto, le attuali abitazioni mono familiari dalle misure ridimensionate rendono ancora più belle e desiderabili le nostre case antiche, ormai abbandonate ed i cortili silenziosi, da sempre abitati contemporaneamente da più generazioni e da più famiglie. Aprirle, abitarle, mostrarle, usarne gli oggetti, anche se per poche ore, assume un fascino incredibilmente indescrivibile.

In queste ore si sentono i nomi di coloro che ci furono, i nomi delle varie parentele e i soprannomi dei casati (suernom), nomi di coloro che hanno contribuito alla vita del paese, gli anziani raccontano i fatti e spiegano come si svolgevano i lavori, come e quali attrezzi venivano usati …, cosa facevano allora bambini … e come vivevano …

L’eco dei nomi di queste persone, la sensazione che possano esserci ancora è molto forte, sembra che ognuno di loro non abbia mai abbandonato quelle case …… ricordarli può forse servire a farli rivivere …...

L’abbigliamento è stato realizzato cercando di riprodurre un “costume” molto simile a quello degli anni ’30 a Cerete. Donne e bambine indossano lunghe gonne nere, grembiule bianco (bigarola o scusal), camicia ricamata bianca e mantellina nera, alcune portano il velo o il foulard sulla testa. Gli uomini indossano scarponi, pantaloni scuri, camicia bianca, gilet, foulard annodato al collo e cappello … non mancano però i signorotti vestiti con abiti interi ed eleganti. I bambini indossano scarponi, pantaloni corti, camicia, gilet e un simpatico berretto.

Circa sessanta comparse ceretesi, abitano ed animano parti di queste antiche case simulando la vita quotidiana degli anni ’30, utilizzando utensili ed attrezzi originali, parlando possibilmente il dialetto bergamasco, il tutto fasciato da uno spirito di allegria e cordialità.

Non mancano le vecchie canzoni cantate da alcuni gruppi locali e melodie di vecchi strumenti suonati senza musica.

I temi che vengono illustrati sono: il paese, le sue vie, le sue case, la vita sociale, i gruppi familiari, i costumi, i mestieri, il lavoro, l’allevamento del bestiame, gli attrezzi e il divertimento. Non manca lo straordinario ruolo delle donne, allora madri di numerosi figli, costituito dal lavoro, dal silenzio, dalle privazioni e dai sacrifici. Nel percorso viene allestito un “museo” che ha come intendimento la raccolta di documenti, libri, fotografie, oggetti e abiti: preziosi materiali che hanno segnato ed accompagnato la nostra storia e quella dei nostri nonni.

Al visitatore viene permesso di vedere e rivivere lungo un percorso quasi obbligato le varie attività, gli animali (mucche, vitelli, asini, galline, oche ecc.ecc.), i mestieri, gli ambienti, gli odori ed i sapori. Offrendo un piccolo grazioso omaggio manufatto dalle donne del paese, vari assaggi di prodotti esclusivamente locali e nostrani, l’USTC Cerete vuole dare il massimo confort e la massima ospitalità al turista che decide di affrontare questo viaggio a ritroso nel tempo.

Ogni anno viene sviluppato un itinerario diverso, con diverse ambientazioni al fine di regalare sempre nuove emozioni ed ogni anno è stato possibile aggiungere nuovi elementi grazie alla continua ricerca, ai continui ritrovamenti ed alle donazioni degli abitanti di Cerete.

Quello che è stato fatto in questi anni può forse contribuire alla ricostruzione di quel prezioso tessuto sociale che si è sfilacciato e per ridare spessore culturale alla vita della nostra comunità che sembra non abbia più gli obbiettivi principali.

 

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